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Le città romane

Le città romane possono essere definite come “città che esistevano entro i confini dell’Impero Romano”. Avendo bisogno di un limite di tempo oltre che di area, potremmo aggiungere “e che furono fondate prima dell’inizio del periodo tardo romano nel 284 d.C.”  Questa definizione include molte città, oltre a Roma stessa, che fu fondata secondo la tradizione il 21 aprile del 753 a.C., in quanto altre città importanti furono costruite più tardi nel 31 a.C.

Come Timgad in Algeria, nella sua origine, non era altro che un enorme accampamento di pietra e malta, permanentemente impiantato in uno degli avamposti dell’Impero. Sarebbe sbagliato pensare che la rigidità geometrica e il motivo a scacchiera di questo tipo di fondazione fossero interamente spiegabili con l’influenza militare. In realtà, c’era nella fondazione della città un elemento di cui la tradizione militare non poteva dare conto: nessuna considerazione pratica spiegherebbe l’orientamento del decumano. Poteva essere attribuito solo a un motivo religioso, ed è piuttosto certo che la fondazione di una città fosse un atto sacro.

Gli autori antichi hanno descritto copiosamente il rituale eseguito in quei tempi: lo stesso fondatore, vestito con una toga drappeggiata alla moda antica, iniziava prendendo gli auspici, per assicurarsi con segni visibili che gli dei non fossero contrari alla collocazione di una città nel posto scelto, poi prendeva i manici di un aratro con una parte di bronzo, trainato da una giovenca bianca e un toro bianco, e tracciava un solco intorno alla città futura, nel luogo in cui dovevano essere costruite le mura. Prestava molta attenzione, assicurandosi che la terra sollevata dal vomere cadesse all’interno del confine e, dietro di lui, gli aiutanti raccoglievano le zolle che a volte cadevano fuori e le buttavano indietro dove le imponeva il rituale. Nei luoghi designati per le porte, il fondatore innalzava il vomere, in modo da lasciare gli ingressi privi di ogni consacrazione. Una volta che il celebrante tornava al punto di partenza, la città era fondata. Questo rito sarebbe stato praticato dallo stesso Romolo intorno alla primitiva Roma. Si diceva che Remo fosse stato ucciso dal fratello perché, per deridere la cerimonia, aveva attraversato con un balzo il fosso e l’argine in miniatura che l’aratro aveva appena formato. Lo scopo del rito era quello di delineare la città futura, attorno alla quale l’aratro in bronzo (la scelta esclusiva di quel metallo ci riporta ad un’epoca in cui il ferro non era ancora regolarmente utilizzato) disegnava una linea di protezione magica.  Dalla terra tagliata dal vomere potevano sorgere divinità infernali, per impadronirsi  del fossato, rendendolo religiosamente invalicabile. Chi non prendeva la precauzione di entrare nel territorio urbano per le porte, dove il suolo, rimasto intatto, costituiva un efficace protezione contro gli dei infernali, diventava maledetto e veniva condannato a morte, perché la contaminazione di cui era stato macchiato diventava un pericolo per l’intera città. Solo questa credenza spiega l’antica leggenda che pone l’omicidio di un fratello alle origini di una città.

Lo scopo del rituale era quindi quello di porre la futura città sotto la protezione degli dei, soprattutto sotto la triade composta da Giove, Giunone e Minerva. Queste tre divinità ricevettero un tempio comune con tre cappelle, che era il Campidoglio (cioè il Capo) della città.

La vita di ogni città, la propria evoluzione e le vicende dei suoi abitanti erano condizionate dalle condizioni geografiche in cui si trovava.

Una delle più importanti città romane fu Cuicul, in Algeria. La fondazione di Cuicul risale al 97 d.C. Fu opera dell’Imperatore Nerva, che voleva così occupare una posizione strategica, il punto in una montagna dove si incrociavano due strade. Una era la strada principale, da est a ovest, tra le recenti città di Cirta e Sitifis. La strada nord-sud andava dal porto di Igilgili al campo della Terza Legione augustea a Lambaesis. In precedenza a Cuicul esisteva un villaggio nativo, abitato da Numidi. Occupava uno sperone triangolare, fiancheggiato da sentieri lungo corsi d’acqua scoscesi o stagionali. La scelta di questa posizione aveva  imposto il primo allontanamento dalle regole della disposizione della città: Cuicul non fu mai una città quadrata e possedeva solo l’inizio di un decumano, orientato in modo molto approssimativo. A causa del paesaggio, le sue mura formavano un triangolo, il cui lato più corto proteggeva lo sperone alla sua base. La fertilità della terra vicina, l’abbondanza delle sorgenti, la facilità di comunicazione con la provincia sempre più prospera fecero sì che la città si sviluppasse rapidamente. Tre quarti di secolo dopo la sua fondazione, Cuicul costruì un teatro per sé, a circa 150 metri a sud dalle mura, e vent’anni dopo furono costruiti i Bagni Sud, il cui splendore e la cui pianta ricordano quelli dei Grandi Bagni Nord a Timgad. Nella scelta delle posizioni per questi nuovi edifici, gli architetti seguirono solo le curve di livello del sito, senza preoccuparsi a priori di regole geometriche. Avevano previsto che la città si sviluppasse sull’altopiano a forma di ventaglio. Ma nel luogo che pensavano sarebbe diventato il centro della nuova città, mantennero uno spazio libero per un nuovo foro. Quando lo costruirono, si accontentarono di seguire la linea del vecchio Muro Sud, che costituiva la linea di base del loro piano. C’erano due archi: uno era sulla strada che portava al teatro e l’altro all’uscita dal nuovo foro. In questi punti iniziava una zona monumentale. Quindi la crescita della città fu limitata dal paesaggio stesso. Successivamente la città continuò a crescere, anche in mezzo al disordine e all’insicurezza che segnarono il terzo secolo della nostra era, e, quando trionfò il cristianesimo, fu nel sobborgo meridionale che, duecento anni dopo fu costruito il quartiere cristiano, con le sue basiliche, i suoi battisteri e il suo palazzo vescovile. Pertanto, l’evoluzione urbana di Cuicul mostrava una notevole unità. Superò tutti gli ostacoli naturali e tuttavia rimase obbediente agli imperativi della posizione. Successivamente, al vecchio decumano fu sostituito un terrazzo con vista sul Foro dei Severi. E dappertutto furono collocate fontane; ce n’era uno dietro l’Arco di Caracalla e un’altra ancora a una certa distanza dalle Grandi Terme. L’angolo nord-ovest del Nuovo Foro era decorato con una fontana, come quella del mercato, vicino al Campidoglio. Anche i cortili delle case private erano resi gradevoli e raffinati dalla presenza dell’acqua; grazie agli ingegneri romani, i locali capirono la necessità di posizionare ovunque fontane di acqua fresca. A prima vista, le case private di Djemila, e le altre città nordafricane, sembrerebbero simili alla casa classica, con atrio e peristilio, come a Pompei. Di questa casa italica, quelle di Djemila conservano l’elemento essenziale: il cortile centrale circondato da colonne.

Man mano che ci si allontanava dal Mediterraneo, le case private diventavano gradualmente diverse; assomigliavano sempre di più alle capanne galliche, ed è molto probabile che, nelle città più settentrionali, solo pochi palazzi privati ​​fossero costruiti alla maniera romana.  Sebbene le prove sulla Gallia stessa siano scarse, numerosi scavi in ​​Gran Bretagna dimostrano, almeno in quella provincia, che le case private erano molto diverse da quelle nelle province del Mediterraneo. Una prima differenza era data dal fatto che le case britanniche non coprivano per intero un isolato cittadino, ma erano circondate da un ampio giardino: questo non fu mai il caso delle città mediterranee. Ne conseguiva che il loro piano non era determinato dal paesaggio su cui erano state costruite. Le case più semplici formavano una sorta di corridoio, il cui fronte era uno dei lati lunghi, delimitato da una veranda. L’interno era suddiviso da tramezzi trasversali in ambienti separati che si aprivano sulla veranda antistante. Nelle case più grandi spesso venivano posti due corridoi in modo da formare un angolo retto con le stanze semplicemente disposte intorno allo spazio aperto. A volte, accadeva che questo spazio fosse completamente recintato e diventasse un vero e proprio cortile. Questa disposizione assomiglia a quella della casa nordafricana, ma la sua origine e il suo spirito erano completamente diversi: il cortile qui non era altro che la fine, quasi casuale, di un’evoluzione e non un elemento centrale ed essenziale attorno al quale era disposto l’intero piano. In effetti, sembrava che in una città come Silchester, in Inghilterra, non ci fossero tante case realmente urbane quanto case rurali ricreate in città e adattate alle esigenze dell’urbanistica romana. Le tipologie di edifici pubblici portati in provincia erano imitazioni dirette di quelle del capoluogo, ma gli urbanisti potevano accogliere forme di architettura estranee alla tradizione italica e conservare, per quanto necessario, ciò che era originale nelle tradizioni locali. Fu forse grazie a questa flessibilità e pragmatismo, che Roma poté tener conto dei climi, delle esigenze sociali ed economiche, e anche dei talenti particolari di ciascuno dei popoli accolti nell’Impero e in questo modo poté far nascere tante città vitali, rifugi da più di mille anni e roccaforti della civiltà romana.

Testo estratto da: Woloch, M. G. (1983) Roman cities, University of Winsconsin Press, Madison, 3,11-14, 83, 87, 95.

Traduzione: Liceo Linguistico“ G.M. Galanti”, Campobasso, PCTO 2020-2021, classe IV F, alunne Colatruglio Lara e Mignogna Noemi